mercoledì 17 agosto 2011

Il substrato culturale di BONE


La prima volta che ho letto  Moby Dick, all'età di dieci anni, l'ho fatto per le parti emozionanti (e l'ho finito con l'assoluta certezza che sarebbe stato un fumetto fantastico; tuttavia ricordo che nello stesso periodo lessi Le miniere di Re Salomone e pensai che sarebbe stato un formidabile musical. Dovevo essere un bambino davvero particolare.) Più di recente, alla veneranda età di trentatré anni, riportato a Moby Dick dall'insistenza di Jeff Smith e dall'occasione di un paio di lunghi viaggi in aereo, mi sono accorto di amarlo tutto, compresi gli innesti spezzati delle precedenti stesure che protrudono dal fianco dell'opera.

Sono parole di Neil Gaiman, che incapsulano tutta l'urgenza di prendere in considerazione due ingombranti aspetti del capolavoro di Jeff Smith, BONE: il fatto che Fone Bone adora e cita spesso Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville, e la coesistenza impeccabile in BONE di due aspetti diametralmente opposti: l'umorismo dell'interazione tra i cugini Bone e la drammaticità della trama generale.

Non a caso Gaiman scriveva quelle considerazioni all'occasione dell'uscita in volume del Libro Secondo di BONE, La grande corsa delle mucche, dove l'umorismo è al suo apice, ma allo stesso tempo la macro-trama inizia a fare capolino in un modo che lascia intendere come Jeff avesse, fin dall'inizio, in mente molto più di una commedia bucolica di ambientazione fantasy.

Così, alla fine della primavera, qui in BAO è iniziata una rilettura completa di Moby Dick, da molti considerato il più riuscito tentativo di Grande Romanzo Americano. Ci ha costretto ad affrontare le prime istanze sul linguaggio della storia e ha stabilito il mood delle emozioni del primo terzo del volume. Unita a un ripasso generale di Pogo di Walt Kelly, Doonesbury di Trudeau e dei Peanuts (ma, davvero, che fatica poteva mai essere? Fanno parte del nostro DNA, del nostro quotidiano da sempre) eravamo pronti a iniziare la nuova traduzione.

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